Maria Paola Martelli
Professoressa associata in Ematologia presso l’Università di Perugia. Responsabile del Laboratorio di Biochimica delle Proteine e Medicina Traslazionale, coordina un gruppo di giovani ricercatori impegnati in progetti di ricerca sulla leucemia mieloide acuta. Come medico svolge attività clinico-assistenziale presso il Reparto di Degenze e il Day-Hospital della Struttura Complessa di Ematologia e Trapianto dì Midollo Osseo dell’Ospedale Santa Maria di Misericordia di Perugia.
Io amo sia l’aspetto medico che quello della ricerca. Non ho tanti hobby: anche se sto a casa o in piscina, mi piace leggere o guardare qualcosa di curioso sulla ricerca. Solo questa grande passione mi spinge a fare tutto quello che faccio, perché è stato ed è veramente difficile.
Ci sono dei luoghi che esercitano una forza paradossale: più cerchi di allontanarti, più ti riportano indietro. Perugia è uno di questi posti a “effetto boomerang” e anche la storia di Maria Paola Martelli, medico e ricercatrice in ematologia, sembra corroborare l’ipotesi. Laureata nello stesso ateneo e nella stessa disciplina di cui il padre era già esponente illustre, si specializza a Roma e vola poi negli Stati Uniti, al National Institutes of Health (NIH), di Bethesda nel Maryland. Lì sposa lo stesso uomo con cui è fidanzata da quando ha 19 anni, lì nasce la prima figlia Bianca. Maria Paola torna in Italia ma non subito a Perugia: c’è prima Roma, dove vede la luce il secondo figlio, Vittorio e, a distanza di soli sei mesi, due gemelle, e dopo Roma una parentesi di tre anni a Bari. «Prendevo il treno alle 20.35 da Perugia, arrivavo alla stazione Tiburtina alle 22.40, mi incontravo con mio marito che mi teneva compagnia fino a mezzanotte, quando partiva l’autobus per Bari, dove arrivava alle 5 di mattina. Andavo a casa, doccia, un paio d’ore di sonno e alle 8 ero in ospedale. Quanto ho pianto durante quei viaggi! Era un posto da ricercatore a tempo indeterminato, progettavo di chiedere il riavvicinamento dopo tre anni, ma quando sono nate le gemelle non sono più riuscita a gestire tutto. Quindi sono tornata a Perugia, dove posso sia fare ricerca che coltivare il rapporto con i pazienti, mentre negli Stati Uniti ero occupata esclusivamente come ricercatrice e a Roma solo nell’ambito clinico».
Muoversi tra due poli
Negli Stati Uniti, studia il ruolo dei linfociti nei tumori. Tornata a Perugia, si focalizza sulla leucemia acuta: una patologia molto aggressiva, che Maria Paola vive in modo intenso già nei suoi anni di specializzazione. «Ero giovane ed è stato molto coinvolgente. La leucemia è stata un po’ una sfida e Perugia è un ambiente di alta ricerca, sempre riferita al paziente. Muoversi tra questi due poli è un continuo adattarsi della mente: ci vuole una grande elasticità e, soprattutto, una passione estrema per questo lavoro. Io amo sia l’aspetto medico che quello della ricerca. Non ho tanti hobby: anche se sto a casa o in piscina, mi piace leggere o guardare qualcosa di curioso sulla ricerca. Solo questa grande passione mi spinge a fare tutto quello che faccio, perché è stato ed è veramente difficile».
Anche il prestigioso grant europeo ottenuto nel 2016 – lo stesso anno in cui diventa professore associato – si traduce in un grande impegno, insieme alla soddisfazione. «Vincere lo European Research Council Consolidator Grant mi ha consentito di allargare il numero di persone che lavorano con me: da tre siamo diventati quindici. Senza dubbio un traguardo gratificante, ma anche un onere: quando hai sulle spalle anche altre persone, per la formazione, per il coordinamento del lavoro e alla fine anche per lo stipendio, è pesante. L’Università non ha fondi per stabilizzare, quindi devi continuamente fare bandi. In ambito medico, chi fa ricerca ed è biologo ha grandi soddisfazioni come ricercatore, ma poche possibilità di stabilizzazione; in ematologia, come medico sei più facilitato. Le insoddisfazioni personali sono molte, soprattutto per le donne che si ritrovano anche con i figli e che tendono poi a “scappare” nell’insegnamento. La ricerca in Italia è un percorso molto duro».
Famiglia e lavoro. La ricerca dell'equilibrio
Il rapporto con i figli. Maria Paola si racconta e la sua storia non ha nulla di edulcorato, non nasconde di aver cercato appoggio tra le mura domestiche, per molti anni, in una ragazza che ha vissuto con la famiglia prima a Roma, poi a Perugia. «Da quando è andata via cinque anni fa, il delirio. Lei faceva tutto e io non facevo niente». E non nasconde neanche di essersi affidata, recentemente, a un supporto psicologico per ristabilire equilibrio tra la dimensione privata, familiare, e l’inevitabile carico mentale ed emotivo del duro percorso della ricerca e dell’altrettanto impegnativa dimensione ospedaliera. «I miei figli mi hanno vista in tanti momenti molto stressata e di questo sicuramente hanno sofferto. A volte, tra la tensione della ricerca e la sofferenza per alcuni aspetti medici e clinici come perdere dei pazienti, tornando a casa non sempre riesci a staccare e finisci per essere anche pesante; di questo ne risentono i figli. Per questo ho iniziato un percorso per imparare a prendermi degli spazi per i figli e per me stessa, cosa che non ho mai fatto se non nel lavoro. È fondamentale ma è anche la cosa più difficile, soprattutto per noi donne che caratterialmente tendiamo a farci carico di tante responsabilità».
Quando Maria Paola ci mostra il suo ufficio, i suoi laboratori, le sale riunioni, c’è un elemento che sembra stonare nella placida formalità degli ambienti ospedalieri: l’immagine di una motocicletta. Il padre, primario di ematologia, per la famiglia aveva rinunciato a quella passione e l’aveva quindi immortalata sul posto di lavoro. Il ronzino postmoderno campeggia nella stanza come un simulacro paterno. Quanto ha pesato questo genitore un po’ ingombrante sulle scelte, sul percorso, sulla serenità di Maria Paola? «Mi sono laureata a Perugia, dove lui era professore di ematologia, che allora era un esame complementare. Fin da ragazzina avevo voluto fare il medico, a parte una breve parentesi in cui ho pensato all’astrofisica, avendo incontrato anche Maffei (nel periodo delle sue scoperte più importanti), che conosceva mio nonno, soprintendente delle Belle Arti in Umbria fino al 1969. La scuola di medicina di Perugia era molto buona e sarebbe stato ridicolo spostarmi, mentre i miei fratelli erano entrambi a Milano, dove si erano trasferiti già i miei nonni».
Per la specializzazione Maria Paola si sposta a Roma, dove rientra dal dottorato negli Stati Uniti con una posizione a tempo indeterminato. «Finché i figli erano solo due potevamo farcela, ma quando sono arrivate le gemelle Beatrice e Diletta mio padre mi ha richiamato a Perugia. A Roma, inoltre, era molto difficile fare ricerca, anche per il numero di pazienti». Nel 2007, il ritorno “a casa”. «Mio padre è stato bravo, non mi ha mai considerato “la figlia”, nel bene e nel male. D’altra parte, io ero già una professionista con molta esperienza sia a Roma che a Bari, delle strutture con tanti pazienti e con approcci terapeutici diversi: due grandi ospedali che sono comunque strutture universitarie». Già nel 2005 Maria Paola aveva allestito un suo laboratorio, cercando di progredire sul fronte della ricerca anche viaggiando avanti e indietro da Bari. «Rispetto a mio padre, ho intrapreso un filone di ricerca diverso: lui era più orientato al trapianto, mentre io mi sono dedicata alle terapie diverse contro le leucemie acute».
I momenti bui
La ricerca per Maria Paola Martelli è indissolubilmente legata ai pazienti. «C’è questa interazione che è fondamentale anche come motivazione: è un obiettivo concreto. Puoi notare un fenomeno nelle cellule del paziente e farlo diventare un progetto di ricerca: cerchi di capire, per esempio, perché si verifica un certo fenomeno sotto l’effetto di un farmaco e che cosa sottende quel fenomeno. Puoi quindi metterlo a frutto dal punto di vista terapeutico. Dal paziente nasce la ricerca e dalla ricerca nasce la possibilità di intervenire sul paziente». Per i pazienti, sapere che il proprio medico è anche impegnato in prima persona nella ricerca sembra rappresentare una sorta di rassicurazione. Qualcosa che a Maria Paola è mancato nei suoi quattro anni negli Stati Uniti e per cui anche in Italia deve costantemente lottare. «In Italia purtroppo la ricerca è praticamente autofinanziata, ovvero finanziata grazie ai fondi che riesci a ottenere, dai grandi enti di ricerca (come ad esempio l’Airc) fino ai grant europei. Purtroppo, sono sostegni temporanei e devi occupartene continuamente. La ricerca è fatta di tanti momenti bui, spesso non hai risultati. Chi fa solo ricerca può avere periodi più o meno lunghi di insoddisfazione, che incidono anche a livello personale. Per me, invece, l’aspetto medico rappresenta una compensazione perché è lì che hai una soddisfazione immediata. La volontà di stare con il paziente è anche un bisogno personale: quando non hai risultati nella ricerca, quando per molti mesi non pubblichi nulla, ma riesci comunque a comunicare un risultato positivo a un paziente che ti risponde con un sorriso, è un momento che umanamente ti riempie e ti compensa di tutto».
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