Valentina Goglio

Ricercatrice a tempo determinato in sociologia economica presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Nel corso del suo Marie Curie Fellowship ha studiato i processi di diffusione dei MOOCs (Massive Open Online Courses) e le loro implicazioni sociali in USA e in Europa, in collaborazione con Stanford University e il JRC-European Commission a Siviglia. I suoi interessi di ricerca ruotano intorno ai temi dell’istruzione terziaria e del mercato del lavoro in prospettiva comparata.

iconmonstr-quote-5-240 Quando i gruppi dirigenti saranno popolati da più donne e da altri gruppi sociali generalmente esclusi forse potremo avere regole del gioco più inclusive per tutti. iconmonstr-quote-7-240

Torino è stata una delle prime città europee a scoprire il tango argentino. Forse la prima in Italia. E il tango – o meglio, l’ambiente della milonga, con le sue regole non scritte che governano l’interazione umana – ha qualcosa di straordinariamente simile all’approccio di una ricercatrice in sociologia. Parola di Valentina Goglio, che ha trovato nella Bocciofila del Fortino – una delle roccaforti, appunto, del tango torinese – la sua seconda casa, dopo l’Università e la panchina di Stanford, dove è arrivata grazie a una borsa Marie Curie. 

«Negli Stati Uniti ho studiato i MOOCS (Massive Open Online Courses), corsi online di livello universitario disponibili su piattaforme come Coursera, EdX o FutureLearn. Sono gratuiti e apparentemente non c’è nessuno ostacolo per l’accesso. Sono stati introdotti nel 2012 con un boom mediatico soprattutto negli Stati Uniti. Cercavo di capire, nel corso della mia ricerca, quale fosse il contributo a livello di riduzione della disuguaglianza sociale, anche perché erano stati presentati come l’innovazione del secolo, in grado di ridurre le disparità sociali per l’accesso al mondo dell’istruzione. Sono andata a verificare questa ipotesi, ma ho anche cercato di capire se chi li frequentava avesse poi un ritorno sul mercato del lavoro e quale fosse il loro impatto rispetto all’istruzione tradizionale».

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La sociologia del tango

Se la figura del ricercatore scientifico è ormai entrata nell’immaginario collettivo – anche nella sua forma più stereotipata, tra provette e microscopi – è ancora abbastanza vaga la percezione del lavoro di un ricercatore di ambito umanistico. Qual è il metodo di cui si serve? Come verifica le ipotesi? È possibile fare riferimento a dei “dati”? Valentina descrive un percorso che non ha nulla di improvvisato e poco di intuivo. «Per verificare le mie ipotesi di partenza, mi sono basata innanzitutto su dati statistici. Non è stato facile reperirli, perché molto spesso non avevo accesso ai database. Alla fine, queste piattaforme non sono così democratiche come si professano. Sono riuscita però a ottenere i dati tramite l’università di Stanford. Oltre all’analisi sui database, ho svolto delle interviste con i docenti e gli utenti dei MOOCs, anche qui con non poche difficoltà, dato che non avevo accesso alle mail. Li ho contattati tramite il passaparola e i social network».

Alla parola “intervista”, è inevitabile che la curiosità si accenda. Ancora di più sapendo di avere davanti una donna che ha imparato, anche grazie al tango, a leggere il linguaggio del corpo e le parole mute scoccate dagli sguardi a bordo pista. «Nell’ambito delle scienze sociali, c’è un metodo scientifico che regola le interviste. Ho scelto di realizzare interviste semi-strutturate, per poi procedere per step. Quando si fanno interviste qualitative c’è un’interazione che devi saper gestire, ci sono delle regole. Anche Il tango mi è venuto in aiuto per analizzare i risultati. Il tango, soprattutto quando ti sposti per lavoro, serve a connettersi con la realtà locale. Con il tango riesco a conoscere meglio il luogo e le persone che ci vivono, soprattutto perché provengono da un ambiente lontano dall’università. Questo mi permette di capire meglio i risultati delle mie analisi. Se non avessi visto, per esempio, la Silicon Valley, non avrei mai potuto interpretare determinate cose. Le persone che ho conosciuto in California –anche grazie al tango- mi hanno fatto capire meglio la realtà statunitense al di fuori dell’industria high-tech. Tante cose dette dagli intervistati sono state più chiare grazie alla mia esperienza sul campo».

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La vita oltreoceano

Tornata dagli Stati Uniti, Valentina ha proseguito le interviste agli utenti MOOCs anche in Europa, ma conserva un ricordo indelebile dei suoi mesi statunitensi. «In America ho potuto incontrare gli esperti più importanti, ricercatori che sono i punti di riferimento delle mie discipline di studio, quelli di cui fino a quel momento avevo solo letto il nome sui libri. A Stanford trovi queste persone sedute accanto a te nei seminari o che girano in bicicletta per il campus. L’ambiente è decisamente meno formale rispetto all’Italia, più aperto all’ascolto e più rispettoso anche per giovani ricercatori o ricercatrici. Rimane un posto molto selettivo e difficilmente potrai ottenere una posizione a Stanford se non hai un dottorato da Ivy League, ma è vero che avrai più occasioni di essere ascoltata nel corso di un tuo speech o nei seminari. Come per ogni cosa, esiste però un altro lato della medaglia. La concorrenza, per esempio, è spietata. Una volta una mia collega mi ha invitato a pranzo unicamente per carpire qualcosa dei miei studi. Ottenuto ciò che voleva, non si è fatta più sentire».

Valentina Goglio è una scienziata sociale. Una figura difficile da collocare, in una percezione collettiva che tende ad associare la scienza solo alle STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), e forse ancor più difficile da accettare in Italia per una donna. «Il professore universitario nell’immaginario condiviso è uomo. Fondamentalmente, la maggior parte delle persone che incontro non sanno bene cosa faccio, compresa mia madre, che dopo il dottorato mi ha detto: ‘Ma hai preso una seconda laurea?’ Per presentarmi mi limito a dire che scrivo articoli e libri, anche perché la sociologia, sconta l’idea che sia solo chiacchiera da bar, mentre invece ha il suo rigore e i suoi fondamenti teorici».

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Essere brave non basta

A proposito di donne, come percepisce Valentina il problema del gender gap? «Credo che le quote rosa siano ancora necessarie, perché le donne continuano a non essere inserite nei contesti lavorativi. Negli Stati Uniti esiste una sensibilità maggiore: ad esempio, il problema degli ‘all male panels’ (seminari o conferenze in cui i relatori sono solo uomini) è superato o almeno messo in discussione, così come c’è una grande sensibilità al tema dell’harrassment (o comportamenti abusanti sul luogo di lavoro) soprattutto dopo il fenomeno del #metoo. Si dovrebbe permettere alle donne di arrivare ai posti di comando, perché fino a quando lì ci saranno solo gli uomini, continueranno a scegliere sempre altri uomini. Siamo di fronte a un approccio conservativo, da boys’ club. È difficile capire il meccanismo che impone questa scarsa rappresentanza femminile: tendenzialmente ci laureiamo prima e in numero maggiore rispetto agli uomini, ma non riusciamo a fare carriera. È chiaro che nel sistema qualcosa non funziona. A ogni step di carriera, per noi donne si crea un imbuto. Essere brave non basta, anche perché la discriminazione è data dai modelli culturali e prende forme non ufficiali e meno riconoscibili. Quando i gruppi dirigenti saranno popolati da più donne e da altri gruppi sociali generalmente esclusi forse potremo avere regole del gioco più inclusive per tutti».

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